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cuba nel 2020

Autore: gio
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Date: Monday 11 February 2002
Time: 10.07

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cosa succederà a Cuba????????????? Diario di Elian Diventato Adulto

All’Avana, senza Fidel Fantacronaca dalla Cuba del 2020

di Dante Liano

Il giorno del suo ventiseiesimo compleanno, Elián González aprì gli occhi e guardò verso la finestra. Il caldo del mattino entrava già, in tiepide folate, e sul cielo era sospesa qualche nuvola, niente di preoccupante. «Nessuna tormenta», pensò, mentre si alzava e camminava verso il lavandino. Il monolocale di periferia che aveva in affitto non aveva i servizi igienici. Per fare il bagno, Elián stendeva sul pavimento dei vecchi giornali, e con una catinella e una spugna si lavava accuratamente davanti allo specchio scrostato da mercato delle pulci. Si guardò. Aveva due occhiaie nere da campione e gli occhi arrossati. La sera prima aveva bevuto troppo. «Oggi, davvero, niente alcol», si promise, sicuro di essere fedele a questo fioretto. Anche lui aveva il suo altarino a Changò. Si volse verso l’orisha e mormorò: «Santa Barbara benedetta, mi raccomando oggi…». Uscì per strada con gli occhiali scuri che aveva rimediato sull’autobus per il centro, sempre affollato. Passò davanti al parrucchiere, che lo salutò, come sempre, col solito: «Come sta il bambino d’oro?». Lo chiamavano così da quando era tornato dagli Stati Uniti, vent’anni fa. Lui si ricordava appena di quel ritorno. Cioè, quel che aveva in mente sotto forma di ricordo era in realtà ciò che aveva letto nei ritagli di giornale che custodiva in una scatoletta di biscotti al burro olandesi. Le brutte fotografie del Granma mostravano folle che riempivano l’orizzonte. E lui, sorridente, abbracciato a papà. Non si ricordava dei dettagli, ma ogni volta che lo salutava il parrucchiere, o che guardava i giornali dell’epoca, una sensazione di malessere lo invadeva. Ancora oggi, la notte si sognava di essere in alto mare, sul punto di annegare; oppure che qualcuno lo perseguitava, e lui aveva i piedi pesanti, e l’altro stava per raggiungerlo. Si svegliava senza respiro. Il giorno che tornò a scuola i suoi compagni di classe lo baciarono e lo abbracciarono. Due giorni dopo tornarono quelli di sempre. Anzi, peggiorarono. Fu a scuola, dove lo chiamarono per la prima volta «il bambino d’oro», forse in onore a Maradona che, a quell’epoca, si stava disintossicando, come una foca bionda, in qualche albergo dell’Avana. I più cattivi lo chiamavano balsero, di nascosto, perché a questa parola lui si metteva a piangere. Tornare a casa era un martirio, perché sempre c’era un giornalista con fotografo che gli faceva invariabilmente le stesse domande. Elián, ancora oggi, si ricordava delle risposte. Mentre saliva sull’autobus per il centro, pensò con rabbia alla fortuna che avevano accumulato a quei tempi. Una casa editrice aveva pagato a suo padre 30 mila dollari per l’esclusiva di un suo libro. E una delle grandi majors ne aveva aggiunti altri 10 mila, per i diritti cinematografici. Pagò il dollaro e cinquanta di biglietto e si sedette sul primo posto vuoto. In periferia sempre ci sono posti. Via via che si avvicinavano al centro, il veicolo si riempiva, ed Elián faceva finta di guardare all’esterno quando una vecchietta si fermava in piedi, davanti a lui, e dopo un poco cominciava a lamentarsi che non c’erano più gentiluomini.

ROVINATO DALL’AVIDITÀ. Fuori, scorrevano le case di nuova costruzione, in alcune parti veramente lussuose. Erano quelle dei narcos, che avevano fatto dell’isola il trampolino perfetto per gli Stati Uniti. A 180 chilometri da Miami, ogni sera partivano flottiglie di gommoni e piccoli aerei che scaricavano la merce dall’altra parte del Golfo. Pur di combattere la droga, gli americani avevano basi militari a La Havana, Santiago e Camaguey. Ma era inutile. La droga passava lo stesso. Scese dall’autobus trenta minuti dopo. I vecchi palazzi erano gli unici a non essere cambiati. Sverniciati, piuttosto anneriti, sembravano sul punto di franare. Camminò senza salire sul marciapiede. Lo faceva così, per rompere le scatole ai conducenti, ma anche per non passare troppo vicino al muro. Non gli andava di essere accoltellato da uno che sbucava da una porta e s’incazzava perché non avevi soldi. Aveva appuntamento nella strada «K», nel Vedado. La 25esima era diventata regno delle puttane. A ogni porta ce n’era una. C’erano anche i bambini della strada, straccioni e puzzolenti, che annusavano con forza i contenitori di vernice. Vide, nello sfondo, i grandi cartelloni pubblicitari che avevano sostituito quelli della rivoluzione. E chi se la ricordava, la rivoluzione? Dopo Fidel, i successori l’avevano smontata in un secondo. Il capitalismo era arrivato a Cuba con gli esiliati che tornarono a frotte da Miami. Suo padre si era rovinato per avidità. Qualcuno lo convinse a investire le migliaia di dollari accumulati con l’affare di Elián in una finanziaria che prometteva guadagni altissimi. I primi mesi andò bene. Al quinto mese la finanziaria andò in fallimento e tutti i soldi svanirono con i dirigenti. E la famiglia si ritrovò peggio di prima. I padroni di casa li sfrattarono senza pietà e ciascuno dovette cercarsi un posto dove vivere. Elián finì in quel postaccio di periferia, senza un lavoro decente. Arrivò alla casa dell’uomo che gli aveva garantito l’arrivo senza problemi alle coste americane. Gli diede, senza tanti complimenti, i 5 mila dollari che aveva risparmiato negli ultimi anni. Convenirono sul luogo e sull’ora della partenza, poi si salutarono. «A questa notte». «Poca roba, mi raccomando», disse il ruffiano. Quando uscì per strada, Elián guardò il cielo, era limpido. «Niente tormente, questa sera», si disse. E poi, rivolgendosi a Changò: «Non fare scherzi». Quella notte, una feroce tempesta tropicale spazzò via quanto c’era sullo stretto di Florida. I più esperti fra i balseros decisero di non uscire, annusando il vento. Uno dei pochi gommoni che lasciarono Cuba fu proprio quello di Elián, ma affondò, in mezzo a onde paurose, alla vista di Fort Lauderdale. Annegarono tutti, meno uno, protetto da Changò. Alle sei del mattino, le onde sputarono furiosamente sulla spiaggia un Elián González al limite delle forze. Si trascinò penosamente, tentando di scansare le potenti luci degli elicotteri della polizia migratoria. La strada era quasi vuota a quell’ora. Per una sorta di pudore, non volle dire il suo vero nome al camionista cubano che lo raccolse e lo portò a Little Havana, a casa di zio Lázaro. Quando suonò il campanello, si rese conto che aveva un aspetto deplorevole. Zio Lázaro venne ad aprire il cancello. Lo riconobbe appena. Lo fece entrare. «Marisleysis», chiamò dal salotto, «indovina chi è venuto a trovarci?». Nella porta apparve un immenso pentolone in vestaglia, con la faccia deformata dalla formidabile sbronza della sera prima. «Chi è a quest’ora?». Fissò con sforzo il visitatore. Un lampo si accese nei suoi occhi, che si aprirono, tondi e arrossati, e una voce rauca, stanca, terrorizzata, quasi gridò: «No, Elián, no! Elián ancora, noooooo!»


Aggiornato il: 10 dicembre 2011