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de L'intervista ad una giovane cubana in Italia e il "non luogo"

Autore: kkk
Email: baciolatino@yahoo.it
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Date: 11/03/2002
Time: 13.07

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Marzo, una mattina come tante a Roma, non mi va di stare in ufficio, esco, prendo la macchina e sono in uno dei tanti centri commerciali, entro, mi faccio spazio tra il caos della gente in un mega-negozio di elettronica, sono quasi confuso, mi accorgo di una luce strana mi avvicino e al banco dei telefonini una giovane ragazza, alta, bionda, occhi azzurri, ma cubana: io: Cosa fai qui? lei: Lavoro! io: E da quanto tempo sei in Italia? lei: Sono qui da qualche anno, sono sposata. io: Ah, e come ti trovi? lei: Bene, molto bene, qualche volta però mi viene la nostalgia io: E torneresti a Cuba? lei: Si però solo per gli amici, per i miei parenti. io: E perché? Non ti piace Cuba? lei: Certo che mi piace, e' la terra dove sono nata, però li non ho speranze, qui ho scoperto cosa e' la vita vera. io: In che senso, spiegami meglio lei: A Cuba io sono insegnante, ma qui mi sento come analfabeta, ho capito la cultura, ho aperto gli occhi, non posso tornare indietro, non vivrei più a Cuba io: Però a Cuba, alla fine si sta bene lei: A Cuba si vive solo per divertimento, però la vera vita non e' quella, la vera vita e' lavorare e raggiungere degli obiettivi con il proprio lavoro, e questo a Cuba non si può fare. io: Va bene, ti lascio lavorare, ma... di dove sei? lei: di un paesino dopo Guanabo, dove fanno la birra, adesso devo andare, ciao, suerte

mi giro, e tra cataste di tv e videoregistratori mi dirigo verso l'uscita, sguardo basso, la cravatta mi si stringe intorno al collo, mani in tasca e la giacca che mi fascia le spalle, penso, un paesino dopo Guanabo, mi viene in mente un notte di qualche settimana prima, proprio in quel posto, sulla via blanca, i fari che tagliano in due il buio fino al tratto dove si comincia a vedere qualche sprazzo di luce, verso lo stadio, arrivo nel tunnel, spingo sull'acceleratore prima una discesa, poi una risalita, dopo qualche istante sono fuori, passo il curvone che mi porta verso sinistra, e davanti a me: il Malecon. Rallento, e accosto, a passo d'uomo le gomme quasi strisciano sul marciapiede malconcio, qualche buca profonda mi scuote, ma di fronte uno scenario spettrale, non c'e' nessuno sulla mia strada, da una parte la potenza dell'Oceano, le onde che si infrangono sul parapetto sgretolato ma massiccio, quell'Oceano insormontabile, che spacca il mondo e ci rende così distanti, dall'altra le facciate di vecchi palazzi, sfaldati dal mare, feriti dal tempo, ancora qualche centinaio di metri e voglio tornare al mondo, cerco qualcuno o forse qualcosa, a sinistra vedo un grande tendone rosso, giro, ma anche qui, deserto, sento le onde dietro che quasi mi spingono tra quei vicoli bui davanti a me, qualche decina di metri più avanti e vedo una luce, arrivo li, mi fermo, scendo, il posto non ha una porta, da fuori si vede solo un lungo bancone e una fila di sgabelli, entro, un uomo anziano da dietro il bancone mi guarda, forse sono io l'alieno o forse e' lui dentro la sua camicia bianca chiusa al collo da un papillon nero, mi guarda e non parla, io cerco un accenno per capire dove sono, le pareti intorno a me sono affrescate da un vernice celeste chiara, in alto campeggia uno slogan ormai sbiadito, mi siedo su uno dei sedili sdruciti dei tanti sgabelli, chiedo dell'acqua e l'uomo: "no hay". Provo con una bibita, ma ancora "no hay". I nostri sguardi si incrociano, l'uno a capire l'altro, io tra le sue rughe e i baffi gialli bruciati da troppo tabacco, lui sulla mio viso pulito, frutto di una infanzia ben nutrita, ci provo ancora, gli chiedo: "si esta abierto, algo tienes?". Mi risponde candidamente: "RON". Curvo sullo sgabello, il gomito sul banco, guardo fuori, il ciglio della strada, i muri scrostati, il rumore delle onde, l'uomo con l'improbabile papillon perso nel suo tempo. E poi il silenzio, un solo istante: il non luogo.

 


Aggiornato il: 10 dicembre 2011